“Alzati, vieni, affrettati: abbandoniamo la città ai mercanti, agli avvocati, ai sensali, agli usurai, agli appaltatori, ai notai, ai medici; abbandoniamola ai profumieri, ai beccai, ai cuochi, ai fornai e ai salsicciai, agli alchimisti, ai lavandai, ai fabbri, ai tessitori; abbandoniamola agli architetti, agli scultori, ai pittori, ai mimi, ai danzatori, ai musicanti, ai ciarlatani, ai mezzani, ai ladri, ai forestieri, agl’imbroglioni; abbandoniamola agl’incantatori, agli adulteri, ai parassiti, agli scioperati mangioni che con l’olfatto sempre all’erta captano l’odore del mercato, e questa è la loro unica felicità, a questo anelano (…).
Lasciamoli stare: non sono della nostra razza. Lascia che i ricchi contino i loro denari, servendosi per questo dell’aiuto dell’aritmetica: noi conteremo le nostre ricchezze senza bisogno di studio o di scienza. Non abbiamo nulla da invidiare a loro, a meno che non siamo ancora dei fanciulli – lungi questo da noi! Che si lasciano ingannare da false immagini.
E’ una vecchia precauzione togliere la bardatura ai cavalli posti in vendita; nessun uomo saggio ha mai desiderato sposare una donna brutta; che fosse ben vestita. Noi, se togliamo gli ornamenti, o meglio le maschere, a questi esseri felici vestiti di porpora, vedremo bene che sono quanto mai infelici; si tengano le loro ricchezze, le loro abitudini, i loro dispiaceri.
Naturalmente le ricchezze che vorrebbero eterne si esauriranno, e fuggiranno i piaceri che con le mani cercano di trattenere: ma rimarranno quelle abitudini che desidereranno non aver mai avuto, e li accompagneranno pur contro la loro voglia. Tutto ciò che li mostra al volgo come oggetto di ammirazione svanirà in un momento; vivono sotto il dominio della fortuna: anche se questa li risparmierà, non li risparmierà la morte. Coloro che posseggono gli oggetti più preziosi – se si può dire tuttavia che posseggono le cose cui sono soggetti – tra breve saranno, proprio essi, posseduti dagli esseri spregevoli.
– E da chi? – tu mi domandi. Le ricchezze le avrà l’erede ingrato e forse un odiato nemico; il corpo lo avranno i vermi e le upupe, l’anima il Tartaro, il nome l’oblio senza fine. Invece, per povero che sia, il giusto rimarrà nell’eterno ricordo. Non si sfidi dunque all’emulazione una falsa prosperità – che è poi una vera miseria; siano allontanati da noi i ricchi molli ed effeminati. A loro siano care le terme, i bordelli, i grandi palazzi, le taverne; a noi le selve, i monti, i prati, le sorgenti”.
FRANCESCO PETRARCA, De Vita Solitaria